Glossario

Stampa su carta all’albumina                                                                                                 

La stampa su carta albuminata (1851-1920 ca.) è un tipo di stampa fotografica inventata nel 1850 da Louis Désiré Blanquart-Evrard e divenne in breve tempo il più diffuso positivo fotografico prodotto commercialmente. Il nome di questa tecnica deriva dal fatto che la chiara d’uovo (l’albume appunto) veniva adoperata come legante per creare un’emulsione a base di sali d’argento da stendere su fogli di carta. Il nitrato d’argento veniva fatto reagire con cloruro di sodio presente nell’albume, formando cloruro d’argento. Il cloruro d’argento, instabile alla luce, rendeva possibile la formazione di immagini fotografiche mediante la stampa a contatto di negativi posti sopra il foglio di carta trattato con questo sistema. La carta all’albumina verrà utilizzata a partire dal 1854 anche per stampare le cartes de visite, i ritratti fotografici delle dimensioni di un biglietto da visita montati su cartoncino, brevettati dal fotografo ritrattista francese André-Adolphe-Eugène Disdéri. Le albumine hanno per supporto un foglio di carta molto sottile  e con il tempo tendono ad arrotolarsi, per questo motivo le stampe devono necessariamente essere incollate su un cartone che faccia loro da supporto e le troviamo ancora oggi generalmente montate su supporti di cartone. La carta all’albumina era poco stabile e tendeva a ingiallire; prodotta fino al 1920, affiancata dagli aristotipi, venne abbandonata solo con l’introduzione negli anni ottanta della carta alla gelatina ai sali d’argento.

Stampa su carta alla celloidina/aristotipo                                                                                 

Con il termine aristotipi (1885-1920) si indicano le stampe su carta alla celloidina dette anche carte celloidine (aristotipi al collodio cloruro d’argento) se ottenute utilizzando il collodio come legante e le stampe su carta al citrato (aristotipi alla gelatina cloruro d’argento) se preparate con la gelatina. Le carte aristotipiche, che dominarono tra il 1884 e il 1930 circa, a differenza delle stampe su carta all’albumina, avevano la caratteristica di essere preparate con uno strato bianco di solfato di bario sciolto con gelatina, chiamato barite, che aveva lo scopo di isolare le fibre della carta e di rendere la superficie nettamente più lucida e liscia, e l’immagine ancora più nitida e profonda. Le fasi di realizzazione di un aristotipo consistevano essenzialmente nella stesura di una soluzione calda di gelatina o di collodio, cioè di nitrocellulosa sciolta in alcool ed etere, addizionata con sali alcalini e nitrato d’argento che, reagendo tra di loro, formano il composto fotosensibile cloruro d’argento. Il nuovo procedimento risultò ancora più sensibile alla luce ed aveva inoltre il vantaggio di permettere il viraggio-fissaggio in un solo bagno e soprattutto, a differenza dell’albumina, ingialliva meno con il passare del tempo. La tonalità di queste stampe era calda e bruna su una superficie lucida, matt o satinata e, con l’aggiunta di pigmenti alla barite, poteva assumere colorazioni rosa, malva o azzurre. Il supporto primario è generalmente costituito da un foglio di carta sottile o di medio spessore. Il positivo aristotipico può in certi casi tendere a incurvarsi. Il supporto secondario può essere assente. In alcuni casi la fotografia è applicata su cartoncino di medio o grosso spessore, anche decorato, o montata in passe-partout. I ritratti sono spesso applicati su cartoncino formato cabinet.

Stampa su carta alla gelatina ai sali d’argento                                                                           

La carta alla gelatina ai sali d’argento (dal 1880) è un foglio di carta con barite ed emulsione di gelatina con generalmente bromuro d’argento. Le stampe tradizionali in bianco e nero vengono definite “ai sali d’argento” in quanto l’emulsione fotosensibile che viene stesa sul supporto cartaceo è costituita da piccolissimi cristalli d’argento detti alogenuri d’argento (di solito una miscela di bromuro e cloruro d’argento). Oggi si utilizza la definizione “stampa ai sali d’argento” anche per differenziarla dalle stampe digitali o dalle più antiche stampe all’albumina e al platino. Il procedimento prevede che una soluzione calda di gelatina venga addizionata di sali alcalini, cloruro di sodio e bromuro di potassio, poi si aggiunge il nitrato d’argento rendendo la soluzione sensibile alla luce. Si forma così l’emulsione che può essere stesa sul supporto (carta, vetro o pellicola) e fatta essiccare.

Stampa su carta al pigmento                                                                                                   

La stampa al carbone (1860-1940) è un procedimento storico di stampa fotografica che risale alla seconda metà dell’Ottocento ed è attribuibile ad Alfonse Poitevin. La tecnica di stampa al carbone o ai pigmenti è una delle prime applicazioni fotografiche dei bicromati (tipicamente bicromato di potassio). Il principio su cui si basa è la proprietà della gelatina, resa sensibile alla luce attraverso il bicromato, di diventare insolubile in acqua dopo una sufficiente esposizione ai raggi ultravioletti. La stampa al carbone è stata commercialmente disponibile fino alla prima metà del XX secolo ed è stata poi progressivamente soppiantata dai più pratici e meno difficoltosi processi all’argento per il bianco e nero, e da quelli cromogenici e dal dye transfer per il colore. L’esposizione viene realizzata per contatto. L’immagine dopo il lavaggio è semplicemente formata da uno strato di gelatina colorata con pigmenti (neri, tipicamente derivati dal carbone per una stampa BN, oppure colorati per stampe a colori).Il processo ha un certo grado di difficoltà tecnica perché richiede il trasferimento (trasporto) dello strato di gelatina diventato insolubile dal primo supporto ad un secondo supporto, trasferimento necessario per evitare successivi distacchi dell’immagine dal foglio originale. La stampa al carbone è sicuramente una delle più belle tecniche di stampa fotografica e le stampe al carbone sono in assoluto le più stabili. Non sono costituite da un deposito metallico, che può essere attaccato o ossidato, ma da un pigmento: semplice polvere di carbone all’origine, tempera o acquarello nell’uso contemporaneo. Questi pigmenti sono in genere derivati da terre e sono quindi completamente inerti. A parte la grande stabilità, le stampe al carbone sono caratterizzate da un’eccellente gamma tonale e da una sensazione di tridimensionalità che le rende uniche. Oltre un secolo e mezzo dopo la sua invenzione, tutte queste caratteristiche uniche della stampa al carbone, ne fanno la tecnica di stampa per eccellenza.

Stampa al platino e al palladio                                                                                                   

La stampa al platino o platinotipia (1873-1920 ca.) è un processo fotografico monocromatico in grado di restituire la più ampia gamma di tonalità che si possa realizzare con uno sviluppo chimico.A differenza del tradizionale sistema all’argento, in cui l’argento viene depositato all’interno di uno strato di gelatina o albumina, il platino è steso direttamente sulla superficie della carta. L’immagine finale, privata dell’emulsione di gelatina, risulterà quindi opaca e formata dal deposito di platino (ed eventualmente palladio, l’altro elemento usato in questo processo) gradualmente assorbito dalla carta. Questa tecnica è considerata il punto di arrivo qualitativo nella stampa fotografica in bianco e nero. Il platino, scoperto nelle colonie spagnole del Sud America, giunse in Europa nel 1750. Gli spagnoli chiamarono questo metallo “platina”, diminutivo peggiorativo di “plata” (argento). Il  suo utilizzo in fotografia si deve a Johan Wolfgang Dobereiner il quale suggerì l’unione del sale platinico con un sale di ferro (l’ossalato ferrico). La platinotipia non è una tecnica inavvicinabile, rimangono, tuttavia, alcuni inconvenienti legati all’alto costo dei materiali, alla reperibilità degli stessi, alla preparazione dei componenti e alla tossicità dei prodotti. I metalli di platino e palladio sono chimicamente molto stabili, e le stampe così realizzate hanno una durata illimitata nel tempo, dipendente solo dalla longevità della carta su cui l’immagine è impressa. Le platinotipie vengono realizzate a contatto da negativo, pertanto per ottenere una platinotipia (così come per le altre tecniche definite “antiche” che si stampano a contatto) serve un negativo grande come la stampa finale. Qualora partissimo da un piccolo formato, è necessario produrre un inter-negativo della dimensione desiderata.

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